ANIMO

Ciò che avevo davanti agli occhi era stato presentato come il più grandioso macchinario che la tecnica avesse mai realizzato negli ultimi mille anni. Sembrava essere un congegno sofisticatissimo; anzi, doveva esserlo, considerando che aveva un intero padiglione espositivo dedicato, che era protetto da una sovradimensionata vetrina in AM-X e che era sorvegliato da cinquantadue agenti RIOT dell'azienda Moss®. Il compimento ultimo del suo processo di creazione -e la sua conseguente presentazione ufficiale- erano stati pubblicizzati in maniera sublime, con parate, celebrazioni pubbliche e addirittura una gala fastosa nel palazzo del Custode, a conferma del fatto che fosse un prodotto di inestimabile valore, certamente destinato all'Archivio di Recupero, il più inviolabile tra quelli della nostra specie. L'intenso propagandare attuato dalla Menfys, l'agenzia che aveva ideato, ingegnerizzato e realizzato l'apparecchiatura, aveva attirato persino me, un comunissimo Operante: non potevo di certo perdermi quello che, con tutta probabilità, sarebbe stato per me e per altri un unicum, un accadimento a cui mai più avremmo potuto assistere.





Il fantomatico dispositivo si chiamava ANIMO e aveva a grandi linee forma cuboide -così avrei risposto se mi avessero chiesto tra duecento anni che forma ricordassi- perché l'aspetto con cui si presentava era ben più complicato. Anzitutto era alto almeno sei metri, largo e profondo circa tre: aveva l'ingombro di almeno sessanta/settanta Operanti come me, naturalmente stipati in maniera ordinata. Più che un macchinario ultramoderno pareva un'accozzaglia di oggetti di antiquariato raccattati non so dove, che si avviluppavano in maniera caotica e parevano non finire mai. Nel dettaglio -così dichiarava il totem esplicativo- il macchinario era costituito di: tubazioni metalliche e plastiche, corrugati, viti, valvole, manometri, cavi elettrici e altri componenti che, come i primi, mai avevo sentito nominare e che sembravano provenire da tutto un altro pianeta rispetto a quello a cui ero abituato. Guardandomi intorno capii di non essere l'unico che faticava a comprendere ciò che aveva davanti. D'altronde -pensai- se avessimo potuto anche solo intuirlo, il marchingegno non sarebbe stato destinato all'Archivio di Recupero.


Come per strapparmi dallo stato confusionale in cui mi trovavo si avvicinò all'apparecchiatura, trapassando misteriosamente la vetrina, un'Apprendista, uno quei modelli di ultimissima generazione con mani prensili. Raggiunse con tipica calma il macchinario e da una sottile lamiera ricavò una specie di tavolino. Vi poggiò sopra quelli che dovevano essere alcuni dei componenti aggiuntivi del congegno, estraendoli da una comunissima borsa in polietilene. Dopo averli miscelati con maestria e delicatezza, prestando un'attenzione ossessiva alle dosi utilizzate, accese finalmente il macchinario aspettando che questo -diceva- raggiungesse la temperatura ideale. A quel punto vi inserì, sfruttando una piccola cavità, il suo composto molliccio e scialbo. Ebbe inizio uno spettacolo maestoso: il marchingegno cominciò a gonfiare e sgonfiare i suoi tubi, ad emettere suoni striduli, sprigionando fumi e vapori densi; inoltre cosparse la pavimentazione di un liquido nero, viscoso e ribollente che, tuttavia, non scompose minimamente l'Apprendista. Una ventina di minuti di insopportabile frastuono più tardi il macchinario si spense di colpo. L'Apprendista ne estrasse il composto fumante e lo poggiò sul tavolino. Dopo averlo osservato con cura maniacale, tastandone in più punti la consistenza, ne strappò un piccolo pezzo e lo ingerì senza esitazione. La folla inorridì, me compreso. Tuttavia l'Apprendista, quasi a rassicurarci, alzò lo sguardo e, mostrando un sorriso a settantadue denti, esclamò -PIZZA!-.

